The Lobster: distopia in salsa tzatziki


Ci sono volte in cui un film ha un alone intorno, un alone che racconta molto più delle 2 ore scarse di storia vista su uno schermo. Ci sono film che raccontano impietosamente la nostra società inventandosi una realtà necessaria e sufficiente non tanto diversa da quella in cui viviamo, anche se facciamo finta che non sia così.

The Lobster è uno di questi film.



Si dice che l’arma più potente da usare contro una persona sia uno specchio: la superficie riflettente, infatti, restituendo come immagine l’esatta replica della persona stessa, la mette di fronte a se stessa costringendola a prendere atto della maniera in cui appare al resto della società. Ci sono persone che usano lo specchio per sistemarsi il nodo della cravatta, per acconciarsi i capelli, per sistemare le pieghe del vestito, per passarsi il rossetto con precisione, attività del genere, piccoli aggiustamenti, correzioni essenziali; altre persone invece lo usano per provare un discorso importante, se sono sane di mente, o per farsi delle chiacchierate con le loro personalità più recondite, se non ci stanno con la testa. Fatto sta che tutti, indistintamente, prima di uscire di casa, un’occhiata allo specchio la diamo. Perché? Perché fuori la nostra immagine sarà il primo biglietto da visita in un mondo che giudica, valuta e condanna, in primo luogo, in base ai parametri estetici visibili a colpo d’occhio.
Eh, già, la società..
La società ci impone delle regole di comportamento, condiziona le nostre scelte, ci dice come dovremmo essere per rispondere ai canoni di “normalità”, cosa bisogna fare o dire e cosa no e, nelle accezioni più aberranti, anche cosa bisogna pensare e come bisogna atteggiarsi. Per fortuna siamo piuttosto liberi di infischiarcene di questi condizionamenti: possiamo scegliere di condurre una vita coraggiosa e creativa che privilegi il nostro pensiero individuale in luogo di quello collettivo e collettivizzante. Ma cosa succederebbe se questa libertà non ce l’avessimo più?
Ad esempio, una delle aree personali in cui la società interviene maggiormente con le sue regole e con le sue coercizioni è la sfera amorosa: per qualche strano motivo, forse derivante dalla mitologia di un filosofo pazzo vissuto secoli fa, ci siamo convinti che sia necessario stare in coppia, cercarsi una compagna e trascorrerci la vita, fidanzarsi e magari sposarsi e avere dei figli. Oppure peggio ancora: se non sei impegnato in una relazione fissa allora sei destinato alla solitudine totale. Non si contemplano e non si concepiscono posizioni intermedie che non siano uno di questi due estremi. Non esistono mezze misure.

Il film The Lobster di Efthymis Filippou e Yorgos Lanthimos indaga proprio questo concetto di estremizzazione nei rapporti umani.


David (Colin Farrell) è appena stato lasciato dalla moglie ma, purtroppo per lui, nella società in cui vive non è permesso di rimanere nella condizione di single. E’ obbligatorio vivere in coppia e, per trovare un partner, si viene mandati in un hotel dove si hanno 45 giorni per scegliere qualcuno ed innamorarsene. Se questo non dovesse accadere si viene trasformati in un animale a propria scelta. David sceglie l’aragosta perché gli piace il mare. Se già tutto ciò non fosse abbastanza inquietante, ad aggravare la situazione ci pensano le condizioni di vita al limite della tortura psicologica dell’hotel che portano David alla fuga. Dove c’è un’estremizzazione, però, ne nasce immediatamente un’altra per bilanciare l’equazione e così alla vita di coppia forzata l’unica alternativa è la solitudine dei Solitari: si può chiacchierare ma non flirtare e, sopra ogni cosa, non si può fare sesso per alcun motivo. Solo masturbarsi, al limite. David finisce dalla padella alla brace, anche perché tra i Solitari incontra una donna (Rachel Weisz) e se ne innamora.

The Lobster si basa su una manciata di temi che si continuano a ripetere. Uno di questi è rappresentato dalla affinità tra le persone. Per interessarsi a un possibile partner è necessario condividere qualcosa con lui o lei, che sia un difetto di pronuncia, un problema alla vista o qualsiasi altra caratteristica peculiare e non determinante non importa: se non c’è almeno un punto di contatto la coppia non si crea. L’altro tema è l’ipocrisia. Essendo obbligatorio vivere in coppia allora tutto quello che si dice e che si fa deve per forza evidenziare quanto sia corretto e appagante trascorrere i propri giorni con un’altra persona a fianco. Con buona pace del buonsenso e dell’intelligenza quando si è costretti a dire o fare qualcosa in modo decisamente artificioso perché in coppia è più bello anche se non è naturale in alcuni casi.
Se ci si pensa bene, in fin dei conti, non sono le stesse forzature a cui ci sottoponiamo tutti i giorni anche senza essere dentro un film?
Il terzo tema affrontato dal film e che in esso si ripropone è il concetto di giusto e sbagliato. La società distopica del film ha commesso un errore fatale cercando di appiccicare uno status materiale, relazionale come la vita sentimentale, a un concetto molto più ampio come quello di giusto. La direttrice dell’hotel crede che sia giusto vivere in coppia e sbagliato, di conseguenza, stare da soli, i Solitari invece tutto l’opposto. Entrambi commettono un errore di fondo piuttosto grave nel dare dell’universale una definizione particolare.

The Lobster ha dalla sua le atmosfere oppressive tipiche delle storie distopiche e l’altrettanto tipico concetto di alienazione dell’individuo dalla natura affettiva dei rapporti personali: come ogni società aberrante, anche la società di questo film distorce il concetto di amore rendendolo meccanico e quasi obbligatorio. E’ una distopia un po’ diversa dai soliti canoni quella raccontata da Filippou e Lanthimos, dai toni sempre molto cupi e claustrofobici, abitata da individui moralmente e intellettualmente codardi che faticano a vedere vie d’uscita percorribili e, contemporaneamente, più correlata con la nostra realtà di quanto non lo siano state le opere di riferimento di questo genere. A mio avviso fa molta più paura perché è reale e già presente nella nostra società, più di quanto non si rendiamo conto e non siamo disposti ad ammettere. E la cosa triste è che l’abbiamo creata noi e continuiamo ad alimentarla.



Tecnicamente The Lobster è un grande film che propone e porta avanti un’idea potente attraverso mezzi tecnici e idee registiche molto valide. Ci sono almeno un paio di scene in cui la posizione della telecamera e la gestione delle immagini sono sublimi e a questo si aggiunge una colonna sonora molto descrittiva e appropriata. Il film è costruito e girato bene e sono state felicissime le scelte di casting: Farrel e la Weisz sono veramente molto bravi.


A penalizzare vistosamente il film ci pensa però una lentezza snervante nella parte centrale. Nelle fasi in cui ci si aspettava un decollo delle emozioni, magari tratteggiato da una dinamicità più accentuata, il film si adagia su un registro narrativo ancora più lento che affatica particolarmente e innervosisce. Per fortuna che i colpi di scena inaspettati tengono viva la fiamma dell’interesse.

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