Clash Royale, Super Mario e i viaggi nel tempo




Per viaggiare nel tempo non è necessario possedere una DeLorean o qualche altro strano marchingegno steampunk: il cervello è la più potente macchina del tempo esistente e i ricordi sono il suo carburante. Basta accenderne e controllarne il flusso e il gioco è fatto, si può fare un balzo temporale dal 2018 al 1996.

Perché cos'è il tempo se non un alternarsi disordinato di ricordi?


Seduto sul divano in cerca di relax estemporaneo, o su una panchina mentre aspetto di entrare al lavoro, o ancora sulla tazza prima di una frenetica giornata di impegni, c’è un gesto consolidato nella routine giornaliera come se fosse un movimento diventato autonomo: prendere lo smartphone e avviare il giochino di turno.

Tra i giochini di turno quello più longevo nel mio smartphone è Clash Royale



So che non è più virale, non è cool e che è stato soppiantato da altri titoli nella categoria di gioco del momento ma io – se parliamo di videogiochi – sono pigro e – se parliamo in generale – me ne infischio delle mode. 

Una, due, anche tre partite se c’è tempo. 

Per chi non conoscesse il gioco stiamo parlando di un qualcosa studiato per generare insoddisfazione e frustrazione con lo scopo di farti spendere soldi (veri) per acquistare item (virtuali). Benvenuti nel mondo dei videogiochi 2.0. Ci sono giornate particolari in cui i famosi e detestati script che regolano le dinamiche di gioco ti fanno schizzare in alto nella classifica a suon di vittorie su vittorie; altri giorni, invece, qualunque mossa fai finisci per scendere sempre più in giù.


Clash Royale funziona così. Per poter avanzare di livello in livello in un tempo ragionevole devi spendere dei soldi, sennò rimani in un limbo fatto di salite e discese che ti restituisce la sensazione di rimanere sempre fermo.

Devi spendere per essere competitivo: questa è la regola aurea dei videogames di oggi.

Eppure ricordo che un tempo non era così. Accendo il flusso e siamo nel 1996.





Uno dei giochi che va per la maggiore è Super Mario Bros.

Si gioca a casa, con gli amici e ci si sfida. Proprio come nel 2018 ma con un livello di competizione più sano.

Apri lo sportellino della console, soffiata rituale alla cartuccia e via con il divertimento. Mamma (se non è al lavoro) porta la merenda per me e gli amici e il pomeriggio perfetto è qui e ora.

Super Mario Bros. è una lezione esistenziale e non un semplice videogioco.


Non c’è alcuna classifica da scalare, nessun item da comprare e nessuno script contro il quale bestemmiare: prendi il pad, ti sgranchisci le dita e via dal primo livello fino al punto in cui riesci ad arrivare con le vite che hai a disposizione, poi tocca a un altro. E così via finché non finisce il giro e tutti i giovani goonies  non hanno avuto la loro chance. Quindi si ricomincia.

La lezione sta tutta qui: aspetti pazientemente il tuo turno tifando per il tuo amico perché più va avanti lui più tu vedi cosa ti aspetta.



Non c’è competizione se non quella di dimostrare quanti livelli riesci a superare prima di cedere il posto. Non si salvano i progressi per cui tutte le volte ricominci da capo ma con una consapevolezza maggiore: la sfida è sempre la stessa ma sei tu ad essere diverso, più preparato, più forte.

C’è Piero che riesce a passare indenne ben 10 livelli ma l’undicesimo è la sua bestia nera; Emiliano che ha paura del boss del secondo livello, Giovanni che detiene il record di segreti scoperti nei vari livelli. E poi ci sono io che ho provato per anni a finirlo il gioco e quando ci sono riuscito mi sono commosso.



Spengo il flusso, si torna al 2018. Di quei pomeriggi passati di fronte a uno schermo a tubo catodico, con il muso sporco di nutella anni luce prima che scoprissimo che contenesse schifezze, con il sorriso sulle labbra di chi è convinto che tutto può solo migliorare, rimangono i ricordi e le sensazioni.

Rimangono la leggerezza e la felicità di stare insieme agli amici in carne ed ossa; ignorando bellamente cosa volessero dire parole come ping, server o fibra ottica; sudando sul divano di pelle stile anni’80 senza sapere cosa fosse la comodità di una poltrona da gamer; commentando le prestazioni degli amici senza indossare delle fighissime cuffie alla moda con la costante supervisione di una mamma che mediava sul linguaggio colorito che tendevamo ad utilizzare.

Non potevamo sapere che gli adulti che saremmo diventati avrebbero visto il mondo dei piccoli, quello che sarebbe stato nostro per così tanto tempo, trasformarsi in un mondo competitivo vissuto come una serie di battaglie contro quelli che chiamano ancora – e impropriamente visti comportamenti e linguaggio – amici.

Non so che fine abbiano fatto Piero, Emiliano e Giovanni perché le nostre strade si sono divise tanti anni fa ma so che se voglio, posso accendere la mia macchina del tempo personale e tornare al 1996 per giocare con loro.

Quanti ragazzi potranno fare lo stesso a trent'anni da oggi? Che bagaglio emotivo si porteranno dietro?


Super Mario simboleggia una sfida contro te stesso, Clash Royale una sfida contro un’altra persona ma l’unica persona con cui è costruttivo essere in competizione e che è corretto battere è il te stesso di 5 minuti fa.

Buona vita a tutti

Commenti

  1. Verissimo: un tempo i videogames erano anche aggregazione e puro elemento ludico.
    Vero che c'erano pc e console da casa, ma le si usava anche e soprattutto con gli amici. E poi c'erano bar e sale giochi...
    Oggi questo sembra essere finito, gli arcade sono su telefono ma appunto devi pagare per progredire... non saprei...
    Però secondo me qualcosa dal passato sta tornando... :)

    Moz-

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  2. Abbiamo scambiato l’aggregazione con il multiplayer e il risultato sono ragazzi che non riescono a relazionarsi coi propri coetanei

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