Sul valore della sfida e sulla capacità di meravigliarsi
Quando pensiamo allo sbarco sulla Luna di Neil Armstrong la
memoria va subito alle immagini che abbiamo visto e al famoso audio in cui l’astronauta
– con molta cerimoniosità – commenta il primo passo sul suolo roccioso del
nostro satellite naturale. Basta però andare oltre la spettacolarizzazione del
fatto, gli slogan propagandistici e le credenze popolari tarate dal livello
culturale delle generazioni che sono venute dopo quel fatidico 1969, per
scoprire il valore fondamentale della sfida nella crescita come individui e
come specie.
La corsa allo spazio ha coinvolto più di mezzo milione di addetti
ai lavori, è durata un decennio e ha visto uno sforzo in termini di mezzi,
cognizioni e capitali senza precedenti nella storia. Quando il presidente degli
Stati Uniti D’America John F. Kennedy presenta l’ambizioso progetto dice queste
parole:
Abbiamo deciso di andare sulla Luna non perché è facile ma perché è difficile e perché una meta del genere ci aiuterà ad organizzare e mettere in campo il meglio delle nostre energie e abilità
E’ tutto qui il profondo valore della sfida: la meta è ardua
da raggiungere e richiederà sforzi immani ma questo è uno stimolo piuttosto che
una scusa per non farlo. Scegliamo di fare qualcosa perché possiamo farlo e
dopo averlo fatto saremo diversi.
Non c’erano ipotesi su come fare né la tecnologia necessaria
per farlo, bisognava partire da zero e conquistare la più ostica delle mete.
Eppure l’abbiamo fatto.
Il film First Man di Damien Chazelle riesce a cogliere i tratti più
intimi e profondi di questa grande avventura dell’umanità e a presentarli nel
contesto della vita di un professionista – Neil Armstrong – che è anche un uomo
prima di essere il primo uomo. Questo è un punto di vista nuovo nella
narrazione cinematografica di questa tipologia di storie.
Buona regia...
Chazelle riesce a sfruttare
al massimo la forza dell’inquadratura da vicino sui dettagli del volto, la
ripresa a mano, tremolante e intimistica, spesso fastidiosa anche, per raccontare
il film attraverso le espressioni del volto di Ryan Gosling (molto positiva la
sua prova, per tutto il film ho dimenticato che mi è sempre stato antipatico).
Ottima sceneggiatura
Josh Singer (West Wing, Lie To Me, Fringe, il caso Spotlight,
The Post) riesce a scorporare le parti più essenziali e intimistiche della
biografia First Man: The Life of Neil A. Armstrong di J.R. Hansen e a
incastrarle con elementi nuovi ideati con lo scopo di rendere più coerente il
tutto. La particolarità di questa scelta è che pur
sapendo che quella scena non è realmente accaduta la sensazione è che se anche
fosse accaduta ci sarebbe stata bene. Singer racconta l’uomo Neil prima del
pilota Armstrong e allo stesso tempo racconta come la sfida più grande di quest’uomo
potrebbe non necessariamente essere stata lo sbarco sulla Luna ma qualcosa di
più personale.
C’è una scena alla fine del film – che non vi spoilero – che
rappresenta la chiusura del cerchio. Difficile credere che sia proprio andata
in quel modo ma quella scena, in quel momento del film e della vita del
protagonista, era fondamentale.
Grande lavoro col sonoro
First Man presenta una gestione grandiosa del comparto
sonoro. I suoni, le musiche e gli effetti sono esattamente commisurati con lo
stato emotivo di chi si muove nelle scene e di chi guarda il film; non
distraggono mai e non diventano mai protagonisti della scena anche quando il
volume sale a livelli importanti. Molto piacevole il gioco di silenzi e suoni
nella parte finale del film.
La seconda chiave di lettura di First Man per me è la
capacità di meravigliarsi.
Viviamo in un’epoca in cui è stato detto tutto, l’epoca
della ragione e della mente dove tutto è spiegato, spiegabile, dimostrabile e
quindi utile per uno scopo specifico che spesso, purtroppo, diventa il mero
guadagno economico. Chi investe sull'innovazione e la ricerca lo fa spesso per
vendere un prodotto migliore e per registrare profitti più alti mentre la popolazione
mondiale è più concentrata sul concetto di spendibilità nel breve periodo e su
problemi di tipo pratico.
La praticità, la ragionevolezza e il mito del profitto hanno
ucciso la meraviglia e fatto quasi del tutto scomparire nelle persone la
capacità di meravigliarsi di fronte all'ignoto, a quello che non conosciamo ma
che potremmo conoscere se solo facessimo uno sforzo attivo.
Negli anni ’60 non c’era la tecnologia avanzata di oggi né i
sistemi di calcolo ultrapotenti di cui disponiamo eppure qualcuno ha pensato
che fosse possibile costruire un razzo capace di staccarsi dal suolo e coprire
in una settimana la distanza che separa la Terra dalla Luna. Far sbarcare due uomini
e riportarli poi sani e salvi a casa.
Personalmente più che l’impresa in sé a me desta meraviglia
l’averlo immaginato come possibile.
Pensiamoci quando crediamo che una cosa è troppo difficile,
impossibile da fare, che non siamo in grado di farla. Sforziamoci di immaginare
l’entusiasmo, le paure, le angosce, le esaltazioni, la fatica e il lavoro di
quel mezzo milione di persone che faceva finta di non sapere che la distanza
che separa la Terra dalla Luna è di 376.000 Km.
In conclusione
First Man è un film da vedere e da seguire con attenzione. Racconta la storia di un uomo ma anche una pagina importantissima della storia di tutti noi. Ha un lato tecnico eccezionale (forse la regia convulsa nella prima parte può disturbare un po') una grande sceneggiatura e un ottimo cast: su tutti il mio personaggio preferito è stato Buzz Aldrin interpretato da Corey Stoll, un personaggio di rottura.
Buone sfide, buona immaginazione e buona vita a tutti.
Commenti
Posta un commento