BELFAST: OH, KENNY BOY

 


IS FADA AN BOTHAR NACH MBIONN CASADH ANN

 

Durante l’ultima cerimonia degli Oscar, mentre Will Smith schiaffeggiava Chris Rock, Belfast di Kenneth Branagh si portava a casa la statuetta per la miglior sceneggiatura originale.
Quando non conosco un film la voce sceneggiatura è quella che mi interessa di più perché essa è una delle colonne che reggono lo spettacolo, certo da sola non basta a fare di un film un buon film, ma da lettore accanito ciò che mi interessa principalmente in una storia, ciò che cerco, è il meccanismo che la fa funzionare. Poi c’è tutto il resto, che è importante, ma la sceneggiatura è la cosa che mi interessa di più.
Come il viaggiatore solitario del celebre sonetto di Percy Bisshe Shelley ho visto film acclamati dai più, colossi osannati a destra e a sinistra, titoli strombazzati per mesi, sgretolarsi in pezzi a causa di sceneggiature mediocri.

Kenneth Branagh, da qui Kenny Boy, ci racconta un pezzo della sua infanzia attraverso gli occhi del protagonista di Belfast, il sagace Buddy intrepretato da Jude Hill. Buddy ha nove anni e vive in un quartiere storico di Belfast cercando di cavarsela tra una piccola avventura, i compiti di matematica, le ricerche di scienze e il primo amore giovanile.
Al suo fianco ci sono Pa e Ma,  interpretati da Jamie Dornan e Caitriona Balfe, il fratello Will (Lewis McAskie) e soprattutto nonna, una irresistibile e sempre signorile Judy Dench, e nonno, un grande Ciaran Hinds.



Sullo sfondo il nascente conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti, le manifestazioni di violenza e gli spettri della fame e della disoccupazione che portano dritti all’emigrazione, il tema che si prende la scena da metà film in poi e che viene declinato attraverso le parole di Ma e le azioni di Pa.

Kenny Boy ci ha messo la sua libbra di cuore (il riferimento a Shakespeare è d’obbligo con Branagh) in questo film e se anche la scelta di una fotografia in bianco e nero e di un taglio molto pragmatico e spietato in alcuni casi, permettemi un paragone con la scrittura dell’immensa Agota Kistof (in Trilogia della città di K soprattutto) , possa far storcere il naso a qualcuno, l’investimento ha ripagato visto che il dosaggio tra ritmo della narrazione e la gestione dei tempi è ottimo e anche l’inserimento di qualche scena divertente, supportata dalla bravura del piccolo Hill, funzionano bene.




La visione, per quanto mi riguarda, mi ha riportato sulle stesse lunghezze d’onda del dolcissimo Jojo Rabbit. Film che io tengo con piacere nella mia piccolissima videoteca personale.

Per chi se lo stesse chiedendo, nel sottotitolo del post il proverbio in gaelico dice:

C’E’ UNA LUNGA STRADA CHE NON GIRA

Per me è una delle chiavi di lettura di questo film.

 

Per ora è tutto gente, buona vita.

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