DAHMER: IL MALSANO SPETTACOLO UMANO...

 


...E IL GUSTO DEL MACABRO

 

Nel saggio Danse Macabre il Re dell’horror Stephen King suggerisce che la prima componente della paura sia il disgusto per quello che si sta guardando: il primo senso, infatti, che viene colpito è quello della vista e le immagini che contengono contenuti forti suscitano spesso una sorta di rigurgito proprio per quello che si sta guardando. Generando il meccanismo del rifiuto comincia così a instillare la paura nello spettatore.

Chi, come me, ha una passione per il True Crime, sa già che quando apre un libro sul tema o inizia un film o una serie TV, arriverà sempre quel momento in cui bisognerà fare i conti con il disgusto nei confronti delle immagini, raccontate o mostrate, di crimini efferati. Sangue e quant’altro fanno parte del gioco, che ti piaccia o no. Personalmente non mi fanno paura queste immagini disgustose, la cosa che mi fa più paura è la componente umana. C’è? Quanta ce n’è?

Quando si parla di serial killer realmente esistiti che hanno inflitto dolore vero alle loro vittime e alle famiglie di queste ultime ci deve essere per forza una componente umana da parte di chi racconta che rispetti quel dolore e anche che si ponga un obiettivo specifico: perché raccontare quei fatti? C’è chi racconta con il taglio dell’inchiesta, chi lo fa per onorare la memoria delle vittime, chi vorrebbe prevenire che si verifichi di nuovo e chi ci vuole guadagnare solleticando il gusto del macabro di molte persone.

In quest'ultimo caso è d'obbligo la domanda: è giusto fare un fatto di cronaca nera uno show televisivo di intrattenimento?

Secondo me non è giusto ed è disgustoso quando lo fanno. Inoltre mi fa paura, e tanta, la luce che vedo negli occhi e la soddisfazione che sento nelle parole di chi ti parla di quegli show come di una cosa bellissima, fantastica e sensazionale.
Come se sedersi il giovedì sera di fronte a una pizza e a una birra guardando un attore che interpreta un pluriomicida e che ripercorre gli assassinii compiuti da quest’ultimo sia una cosa normale. Davvero abbiamo ridotto la normalità a questo? Accettare la spettacolarizzazione senza farci domande?

Non voglio però moralizzarti con quello che sto dicendo. Sto dando sfogo a un pensiero che mi si è formato dopo aver visto l’ultimo prodotto super pubblicizzato e viralizzato di Netflix, Dahmer.

Dahmer è una serie TV composta da 10 episodi che ripercorre la vita di Jeffrey Dahmer, uno dei più efferati serial killer della storia americana.

Tra il 1978 e il 1981 Jeffrey Dahmer ha ucciso 17 persone infierendo in modo osceno sui cadaveri e arrivando anche al cannibalismo. Pratica che gli ha fatto affibbiare nella letteratura true crime il soprannome di Il cannibale di Milwaukee.

Io conoscevo già Jeffrey Dahmer da alcuni articoli che puntavano l’attenzione sulle tante controversie e conseguenze dell’attività del killer e sul suo impatto sulla società. Quando ho letto che Netflix avrebbe pubblicato una serie su Dahmer ho subito pensato che poteva essere un buon modo per trattare il true crime anche sullo schermo con la stessa attenzione, mi auguravo, di come viene trattato sulla carta. Mi aspettavo una specie di serie-inchiesta con interviste e pareri di esperti come è opportuno fare in questi casi.
E, invece è stata una spettacolarizzazione del tutto. Una grottesca e macabra speculazione su uno dei tanti, purtroppo, casi di serial killer che hanno sconvolto la società americana e non solo.

Inoltre, nelle scorse settimane il web è andato in fibrillazione per questa serie e negli USA, da sempre paese morigerato e razionale (!!), sono andati a ruba il modello di occhiali indossati da Dahmer e il costume di Halloween a lui ispirato. Che bel posto devono essere questi USA!

Poi c’è stato il codazzo di recensioni, analisi sull’accuratezza storica dei fatti, video di critica o di analisi dell’opera fino ad arrivare alle polemiche generate da alcuni dei discendenti delle vittime che si sono sentiti particolarmente offesi dallo show per tutta una serie di motivi, primo fra tutti, ovviamente, il far tornare a galla una storia che fa ancora male per motivi puramente economici.

La cosa che più mi ha dato fastidio della serie è stata la ricerca costante da parte degli show runner di cercare la moralità e di mostrarla come un feticcio della qualità del prodotto quando invece non è stato fatto in fase di produzione nemmeno un gesto semplice, ma opportuno, come quello di avvisare le 17 famiglie coinvolte che ci sarebbe stato uno show sul carnefice dei loro congiunti.
Al di là del lato tecnico (che è molto alto comunque) la serie ha un problema proprio in questo disaccordo emotivo tra il voler moralizzare lo spettatore, volontariamente o no, e l’essere passati sopra i sentimenti di tante persone come un carro armato su un campo di margherite.

Per me è sbagliata proprio l’idea di base di questa serie. Cosa mi vuoi raccontare? I motivi per cui Jeffrey Dahmer è diventato un Killer? La sconfitta del valore della famiglia? Le idiosincrasie della società americana dell’epoca? Il valore tradito della giustizia?
Il racconto da più punti di vista, così com’è nella serie, ad un certo punto diventa un farraginoso accatastarsi di punti di vista e di circostanze sgradevoli in cui anche chi non ha commesso omicidi finisce per dire delle cose piena di rabbia e disumanità. Manca una figura esterna ai fatti che mantenga le redini emotive del tutto.
Essendo un consumatore di true crime ho sempre trovato nel narratore questa figura sia esso un pubblico ministero, un giornalista o un autore particolarmente preparato.

La dimostrazione di quello che dico in questo post, per chiunque voglia accedervi, è un po’ faticosa ma, credo, necessaria. Se, infatti, hai visto Dahmer e e sei super esaltato da quello che hai visto, prova a leggere A Sangue Freddo di Truman Capote, L'Avversario di Emmanuel Carrere o Helter Skelter di Vincent Bugliosi e vedrai come si possano raccontare efferatissimi fatti di cronaca in modo professionale e senza spettacolarizzare né il carnefice né le vittime.

Prova e mi dirai.

 

Alla prossima

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